Estratto da "Confessioni di un garbato nemico dello Stato - Parte 1 (1945-1969)" (qui puoi vedere l'intero testo e scaricarlo)

Berkeley negli anni 60

Era il momento più meraviglioso per arrivarci. Si sentivano ancora le ripercussioni vivificanti del Free Speech Movement. C’erano discussioni animate nella città universitaria, nelle strade via, nei caffè, ovunque — e non soltanto fra gli hippies ed i radiicali. Moderati ed anche giovani conservatori, consapevoli che tutto era stato messo in questione, si lasciavano trascinare in dibattiti su tutti gli aspetti della vita.

Durante il primo anno mi iscrissi agli studi orientalisti di secondo livello all’American Academy of Asian Studies, piccola scuola di San Francisco che ora non esiste più. Ma più spesso me la spassavo con Sam. Con la sua mediazione mi sono mescolato al milieu molto vivo dei poeti della Bay Area, incontrando molti giovani poeti e assistendo a molte letture pubbliche con alcuni dei personaggi più significativi della generazione precedente — Rexroth, Snyder, William Everson, Robert Duncan, Lawrence Ferlinghetti, Allen Ginsberg, Philip Whalen, Lew Welch. Benché non abbia scritto molto, mi immergevo nella poesia. Con Sam, leggevamo a voce alta Whitman, Kenneth Patchen o William Carlos Williams, a volte su una base di musica jazz, o improvvisavamo delle poesie a catena (dove molte persone scrivono in alternanza) mentre attraversavamo in automobile il ponte di San Francisco, quando lo accompagnavo al corso serale di Lew Welch ed al “corso” di discussioni libere animato da Rexroth al San Francisco State College.

Mi piaceva molto Rexroth, ma mi sono appassionato in un primo momento a Welch. Era più giovane, condivideva il nostro senso dello humour zanni ed i nostri entusiasmi giovanili per gli psichedelici e la nuova musica rock. Mi ricordo soprattutto della sua insistenza sulla parola giusta. Credendo che i poeti abbiano una vocazione sciamanica ad esprimere le realtà essenziali del modo più preciso ed accurato, denunciava incessantemente qualsiasi “imbroglio” nella poesia, ogni espressione trascurata, sentimentalista o “inesatta”.

Rexroth, benché anch’egli vedesse i nostri entusiasmi abbastanza di buon occhio, era più distaccato ed ironico. Derideva gli psichedelici, ad esempio. Pensavo inizialmente che non sapesse di cosa parlava; ma leggendo alcune delle sue poesie mistiche, mi accorsi che conosceva a fondo queste esperienze, avesse o no impiegato dei mezzi chimici per arrivarci. A poco a poco giunsi ad apprezzare la sua saggezza e la sua magnanimità sottili e discrete.

Durante i miei primi due anni a Berkeley feci una dozzina di trip psichedelici con Sam e altri amici. Generalmente eravamo in tre o quattro, riuniti in qualche posto tranquillo al riparo da interventi esterni, eravamo accompagnati preferibilmente da un non partecipante esperto che avrebbe potuto occuparsi di ogni commissione necessaria. Generalmente ascoltavamo semplicemente della musica, lasciando che l’avvio di un raga indiano ci riportasse all’inizio eterno dell’universo, o che le note di un pezzo per clavicembalo di Bach ci passassero attraverso come una pioggia di gioielli. A volte entravamo in una zona d’umore in cui il senso della santità universale era inseparabile dalla sensazione della fondamentale follia buffonesca del tutto; ed il giorno dopo avevamo ancora le guance doloranti a causa degli orgasmi multipli di riso. A volte andavamo nei boschi: mi ricordo due trip specialmente affascinanti alla psilocibina in una piccola capanna di un cañon vicino — nella reazione euforica mi venne quasi la voglia di fondare un culto per l’adorazione della natura. Gli psichedelici erano per me già sufficientemente sconvolgenti senza doverci aggiungere il rumore e la confusione delle grandi folle, ma feci un’eccezione per uno dei rari concerti di Bob Dylan a Berkeley. Un’altra volta con Sam prendemmo LSD prima di andare ad una delle prime manifestazioni contro la guerra del Vietnam, nell’ottobre 1965. Sapevamo certamente che non sarebbe stato l’ideale per un trip tranquillo, ma pensavamo che avrebbe potuto essere interessante vedere come le due cose si sarebbero combinate. Non troppo male. I discorsi di alcuni politicanti straight mi sembravano abbastanza fastidiosi, ma mi piaceva la sensazione di essere parte di una comunità impegnata.

Nell’autunno del 1966 lasciai la scuola. C’erano tante altre cose più appassionanti! La controcultura hip, che era emersa in superficie l’anno precedente, si diffondeva con la velocità del fuoco. Il quartiere di Haight-Ashbury straripava nelle strade in una festa quasi permanente. Migliaia e migliaia di giovani venivano qui a vedere ciò che succedeva, compresi decine di miei amici di Shimer, di Chicago e del Missouri. La mia piccola casa (due stanze di 3 metri per 3, una cucina ed un bagno, per 35 dollari al mese) era una tappa, alloggiando a volte fino a sette, otto persone nello stesso momento. Ora che sono abituato ad una vita isolata e più tranquilla, ho difficoltà ad immaginare come potevo sopportarlo. Ma in quell’epoca eravamo tutti giovani, condividevamo gli stessi entusiasmi, e quando non andavamo ai concerti, quando non facevamo un salto a Telegraph Avenue, a Haight-Ashbury, a Chinatown o al Golden Gate Park, quando non andavamo in campagna a fare camping, eravamo contenti di restare a casa mia leggendo, chiaccherando, improvvisndo, ascoltando dischi e facendo lievitare il pane delizioso che facevamo tutti i giorni, senza preoccuparci che non ci fosse posto per mettere i nostri sacchi a pelo. Certamente il fatto che eravamo stonati per l’erba quasi in modo permanente favoriva l’armonia generale.

I miei genitori mi mantennero finché frequentavo la scuola, ma dal momento in cui l’abbandonai dovetti cavarmela da solo. Come tanti altri negli anni 60, sono sopravvissuto con quasi niente, usando dei buoni di prodotti alimentari per i poveri, condividendo un affitto economico con molte persone, vendendo giornali underground, facendo piccoli lavori di tanto in tanto. In pochi minuti potevo arrivare dovunque in autostop a Berkeley o nella baia di San Francisco, ed ero spesso conosciuto dal conducente che mi offriva dell’erba. Se necessario potevo facilmente mendicare il prezzo di un pasto o di un concerto.

Dopo un anno di questo stile di vita piacevole ma precario, lavorai come postino per sei mesi; quindi lasciai questo lavoro e vissi delle mie economie nei due anni successivi. Quando il denaro cominciò ad esaurirsi scoprii un circolo di poker. Ed il centinaio di dollari che vi guadagnavo tutti i mesi, oltre ai guadagni di un lavoro di un giorno alla settimana come autista di taxi per una società cooperativa hip, mi permise di andare avanti per qualche altro anno.

Se gli psichedelici erano il cuore della controcultura, la sua espressione più visibile, o piuttosto più udibile, era ovviamente la nuova musica rock. Quando la musica sempre più sofisticata dei Beatles e degli altri gruppi incontrò le parole sempre più sofisticate di Bob Dylan, che portava la musica popolare ben oltre le canzoni di protesta e gli schemi rigidi delle forme tradizionali, abbiamo avuto infine la nostra musica popolare. Mentre Dylan, i Beatles e i Rolling Stones diventavano più apertamente psichedelici, i primi gruppi totalmente psichedelici si sviluppavano nella Bay Area. Ben prima che avessero registrato dei dischi, potevamo ascoltare i Grateful Dead, Country Joe and the Fish, Big Brother and the Holding Company e decine di altri gruppi appassionanti quasi in qualsiasi momento, al Fillmore, all’Avalon o gratuitamente nei parchi. Quando riuscirono finalmente a farsi registrare, i loro dischi erano lontani dal restituire l’esperienza di questi concerti in pubblico, parte integrale di una controcultura che era al suo massimo. Questi primi concerti, Trips Festivals, Acid Tests e Be-Ins, per quanto triti e ritriti questi termini possano apparire ora, comprendevano molta improvvisazione e interazione, e non soltanto sulla scena. La musica e i light-shows erano ovviamente subordinate ai trip dell’audience, e piuttosto che degli spettacoli, erano l’accompagnamento di una celebrazione. Se c’erano alcune persone famose sul palco (Leary, Ginsberg, Kesey), non erano star inaccessibili; sapevamo che erano sconvolti quanto noi, compagni di un viaggio di cui nessuno poteva predire la destinazione, ma che era già fantastico.

E questi grandi raduni pubblici erano soltanto la parte emersa dell’iceberg. Le esperienze più significative erano piuttosto personali ed interpersonali. La controcultura aveva molta più sostanza intellettuale di quel che pensavano gli osservatori superficiali. Certamente c’erano i flower children (hippies stereotipati) ingenui e passivi, soprattutto nella seconda ondata di adolescenti, che adottavano gli ornamenti esterni di uno stile di vita hip già esistente senza avere dovuto fare nessuna esperienza indipendente; ma numerosi “hips” avevano più senso critico, vivevano esperienze più profonde e diverse da quello che si crede generalmente, e si dedicavano ad una grande varietà di progetti creativi e radicali.

Qualcuno sarà forse sorpreso del contrasto tra la critica caustica della controcultura alla quale mi sono dedicato in alcuni miei vecchi scritti e l’immagine più favorevole che ne presento qui. È il contesto che è cambiato, non le mie opinioni. All’inizio degli anni 70, quando tutti erano ancora coscienti degli aspetti radicali della controcultura, pensavo che occorresse sfidare la sua autocompiacenza, segnalare i suoi limiti e le sue illusioni. Ora che gli aspetti radicali sono stati praticamente dimenticati, mi sembra molto così importante ricordare il suo lato fantastico e liberatore. Accanto a tutta la pubblicità spettacolare, milioni di persone procedevano a cambiamenti radicali nella loro vita, consegnandosi a sperimentazioni audaci e scandalose che non avrebbero affatto pensato di fare alcuni anni prima.

Non nego che la controcultura comprendesse molta passività e stupidità. Voglio soltanto sottolineare che vedevamo — e fino ad un certo punto la vivevamo già — una trasformazione fondamentale di tutti gli aspetti della vita. Sapevamo fino a quale punto gli psichedelici avevano cambiato profondamente il nostro stato d’animo. All’inizio degli anni 60 c’erano soltanto alcune migliaia di persone che ne avevano fatto l’esperienza; cinque anni più tardi la cifra aveva superato un milione. Chi avrebbe potuto dire che questa tendenza non sarebbe continuata, e non avrebbe scardinato finalmente l’intero sistema?

Finché è durata, la controcultura era notevolmente benevola. Trovavo del tutto naturale fare autostop con non importa chi, offrire un joint a sconosciuti, o invitarli a dormire a casa mia se erano appena arrivati in città. E in quell’epoca di questa fiducia non si abusava quasi mai. È vero che l’età d’oro di Haight-Ashbury non è durata a lungo. Le cose iniziarono a peggiorare verso il 1967, quando la pubblicità di Summer of Love [Estate d’amore] attirò un afflusso enorme di giovani che erano meno esperti e più vulnerabili, pronti a farsi sfruttare dal flusso parallelo di truffatori e di spacciatori. Ma altrove la controcultura continuò a fiorire per molti anni ancora.

Da parte mia, mi interessavo ad esperienze che “allargavano lo spirito” ed i brividi d’evasione che intorpidivano soltanto non mi seducevano affatto. La maggior parte della gente che frequentavo pensava lo stesso. Oltre ad una birra di tanto in tanto non bevevamo affatto alcool, e ci era difficile immaginare soltanto che si potessero preferire gli effetti grezzi e spesso insopportabili dell’alcool agli effetti estetici e benigni dell’erba, a meno che uno non fosse estremamente represso. Quanto alle droghe dure, non ne avevamo quasi mai sentito parlare, con la notevole eccezione delle anfetamine. In quantità modesta l’effetto dello speed non è molto diverso da quello del caffè in grande quantità, e la maggior parte di noi ne prendeva di tanto in tanto per rimanere sveglio di notte per qualche compito scolastico, o per attraversare il paese in automobile senza fermarsi. Ma non ci vuole molto perché diventino pericolosi. Finirono per uccidere Sam.

Sam aveva iniziato a prendere molto speed nel 1966, e nel 1967 era sempre più maniaco e paranoico. Questa paranoia si esprimeva con la professione del culto della terra cava, secondo il quale l’interno della terra era abitato da qualche specie di esseri misteriosi, e le autorità costituite occultavano questa informazione al grande pubblico (come nel culto abbastanza simile dei dischi volanti). Appena veniva menzionata la parola “underground”, per esempio, Sam faceva un cenno d’intesa con il capo. In realtà, quasi tutto, un verso poetico o una frase pubblicitaria, poteva, con dei giochi di parole, essere interpretato da lui come un segno che l’autore fosse uno di quelli che era al corrente della terra cava. Una delle esperienze più penose della mia vita fu di vedere il mio migliore amico diventare a poco a poco sempre più demente, mentre i miei sforzi per riportarlo alla ragione non avevano il minimo effetto. Una volta, se la svignò da casa, nudo ed in mezzo alla notte, e corremmo con sua moglie ovunque nei dintorni per ore prima di trovarlo. Un’altra volta è stato raccolto mentre faceva autostop in autostrada in uno stato così delirante che un poliziotto della stradale lo condusse all’ospedale psichiatrico di Napa. Sua moglie lo riportò finalmente nel Missouri.

Durante i due anni successivi il suo stato variava considerevolmente. A volte la sua esuberanza ed il suo buon umore facevano pensare che le sue divagazioni verbali fossero soltanto delle furbe improvvisazioni poetiche che lui stesso non prendeva sul serio. Altre volte affondava in depressioni gravi ed era ospedalizzato. L’ultima volta che lo vidi, sembrava calmo ma debilitato (probabilmente per i tranquillanti); non somigliava più alla persona che conoscevo da sempre. Quindici giorni più tardi mi telefonarono per dirmi che si era impiccato. Aveva 27 anni.

Rexroth ha spesso osservato che una quantità sorprendentemente elevata di poeti americani del XX secolo si è suicidata. È da supporre che i loro sforzi creativi li avessero portati a diventare insopportabilmente sensibili alla bruttezza della società, oltre ad averli esposti ad estreme frustrazioni e disillusioni nella loro vita personale. Il fatto è che l’idea rimbaudiana di cercare visioni per mezzo di uno “sregolamento sistematico di tutti i sensi” ha spesso ispirato comportamenti semplicemente idioti ed autodistruttivi. Quali che fossero i fattori sociali o personali che poterono contribuire alla pazzia di Sam, la causa immediata era certamente la grande quantità di speed che prendeva.

Può darsi che anche gli psichedelici abbiano giocato un ruolo, ma ne dubito. Nonostante le storie di gente che perde la ragione durante un trip, delle quali si è fatta una pubblicità esagerata, milioni di persone ne hanno presi durante gli anni 60 senza subire il minimo danno. Per non perdere il senso delle proporzioni, occorre ricordare che il numero di morti che si possono attribuire agli psichedelici nell’intero decennio è inferiore a quello dei morti dovuti all’alcool o al tabacco in un solo giorno. In alcuni casi gli psichedelici hanno certamente portato in superficie problemi mentali latenti, ma probabilmente nel migliore più spesso che nel peggiore. Ed ho la sensazione che molte più persone sono state salvate della pazzia grazie agli psichedelici, nella misura in cui l’esperienza le aveva aperte a prospettive più ampie e le aveva rese coscienti di altre possibilità oltre quella della cieca accettazione dei valori folli del mondo convenzionale.

In ogni caso, sono persuaso che gli psichedelici mi furono salutari. Oltre a un solo trip realmente infernale (sotto DMT), furono quasi tutti meravigliosi e li annoverp fra le esperienze più preziose della mia vita. Se ho cessato di prenderli nel 1967, è perché ero giunto a rendermi conto che i loro effetti salutari erano irregolari e non duravano. Vi danno soltanto una visione momentanea, una suggestione di ciò che è là. Ecco perché un certo numero di noi finì per avvicinare pratiche di meditazione orientali, per esplorare tali vie più sistematicamente e imparare ad integrarle più durevolmente nella nostra vita quotidiana.

Il Buddhismo Zen continuava ad attirarmi. Avevo già scoperto il Centro Zen di San Francisco, dove andavo di tanto in tanto per fare meditazione o per sentire i discorsi di Shunryu Suzuki, maestro Zen piccolo e gentile. Quando una filiale di questa scuola aprì a Berkeley nel 1967, iniziai ad andarci un po’ più regolarmente. Ma non continuai a lungo, in parte perché avevo alcuni dubbi sulle forme religiose tradizionali, ma soprattutto perché la pratica esigeva che ci si alzasse alle quattro di mattina, cosa che era difficile da conciliare con il mio stile di vita dell’epoca. Ero preso nello stesso tempo da così tante passioni diverse che mi è difficile raccontarle cronologicamente.

Una delle mie passioni era il cinema. All’inizio del 1968, fui improvvisamente la meravigliato di questo genere artistico mi afferrò, e per due anni ne fui preso. Ho visto quasi mille film, cioè quasi tutti quelli che uscirono nella Bay Area e che avevano qualche interesse, tra cui otto o dieci alla settimana al Telegraph Reportory Cinema che avevo convinto a concedermi l’ingresso libero permanente in cambio della distribuzione dei loro calendari pubblicitari, e ci tornavo spesso per rivedere per la seconda o la terza volta i film che preferivo di più. Le pellicole sperimentali di Stan Brakhage mi diedero l’idea di realizzare personalmente alcune piccole esperienze con una macchina fotografica 8mm, ma essenzialmente ero soltanto uno spettatore. I miei favoriti erano i primi europei classici — Carl Dreyer, i film muti tedeschi e russi, le pellicole francesi degli anni 30 (Pagnol, Vigo, Renoir, Carné) — e alcune pellicole giapponesi del dopoguerra. Oltre ai vecchi comici (Chaplin, Keaton, Fields, i fratelli Marx, Laurel e Hardy), che compensavano in gran parte i loro aspetti deteriori con quei momenti sublimi di ilarità poetica che talvolta raggiungevano, la maggior parte dei film americani non mi soddisfaceva molto. Hollywood ha sempre reso volgare tutto ciò che ha toccato, indipendentemente dalla qualità degli attori, degli autori o delle opere letterarie di cui le sue pellicole presumono di essere tratte; ma prima che la sua influenza sia riuscita a dominare tutto il pianeta, alcune delle industrie cinematografiche straniere tolleravano ancora alcuni sforzi creativi.

Dopo avere visto la maggior parte dei classici, oltre ad un campione abbastanza grande degli stili moderni, finii per stancarmi. Ho visto pochissimi film dopo il 1970, e ne sono quasi sempre rimasto deluso. Quasi tutti, compresi i cosiddetti capolavori sofisticati, sono concepiti fin troppo ovviamente soltanto per un pubblico di illetterati con problemi emotivi. Praticamente il solo cinema recente per il quale abbia trovato un po’ di interesse è quello di Alain Tanner. Ci sono senza dubbio alcune altre opere di qualche merito, ma occorre ingurgitare troppi rifiuti per trovarle. Preferisco quasi sempre leggere un buon libro.

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