E’ difficile imporsi con un discorso di negazione: l’abolizionista
del sistema penale prova proprio questa particolare difficoltà nel
giustificare il suo rifiuto del sistema attuale prima di essere
autorizzato a parlare della società senza sistema penale, che egli
percepisce essenzialmente come portatrice di positività. L’abolizionista
prefigura una società il cui sistema statalista costruito due secoli
fa non ha più nessuna ragione d’essere. Ma l’esistenza stessa di
questo sistema l’obbliga a dire preliminarmente perché spera di
eliminarlo. D’altra parte, vi è in questa necessità un vincolo positivo
che gli permette di stabilire realisticamente un contatto con i
ricercatori di oggi nei cui lavori si mette in discussione la giustizia
penale e nel contempo di invitare pensatori e operatori a oltrepassare
il livello delle constatazioni di fatto per lavorare espressamente
all’elaborazione di una logica alternativa, che non si limiti alla
critica del sistema penale ma si adoperi alla ridefinizione dei
problemi. La parola abolizione quindi nasconde in fin dei conti
un pensiero attivo, prospettiva cognitiva critica e movimento sociale
creatore di libertà, di cui si tenterà di mettere in luce fondamenti
e implicazioni.
I fondamenti della teoria abolizionista
Due affermazioni complementari manifestano il duplice fondamento
della prospettiva abolizionista: invece di risolvere i problemi
che si suppone debba affrontare, il sistema penale ne crea di nuovi,
è un male sociale. Meccanismi paralleli di risoluzione dei conflitti
mostrano che una società senza sistema penale funziona già sotto
i nostri occhi. Riconoscerla e permetterle di svilupparsi renderebbe
il sistema penale privo di effetti. Il sistema penale è un male
sociale. Le ricerche delle scienze umane mettono in evidenza da
alcuni anni un fatto molto importante: nel suo reale funzionamento
il sistema penale non risponde affatto agli obiettivi che gli sono
stati attribuiti. Si crede che il sistema penale sia il prodotto
di un processo politico-giudiziario ponderato e coerente che ne
mantiene nello stesso tempo il controllo. Si pensa anche, per lo
meno nelle democrazie occidentali, che il sistema penale è lo strumento
indispensabile di una giustizia che tutela sia i diritti dell’uomo
che i valori che questi regimi proclamano essenziali. Ma niente
di tutto ciò è vero. Il sistema penale è infatti una macchina burocratica
le cui sottostrutture, agendo indipendentemente le une dalle altre,
producono delle decisioni irresponsabili. E il sistema penale disprezza
le persone concrete dei cui problemi si appropria lavorando senza
di loro e contro di loro.
Perché il sistema penale non funziona
Di queste due fondamentali accuse mosse al sistema penale, la teoria
abolizionista fornisce un’analisi fondata. Il sistema penale è una
macchina burocratica. Già nel 1975, un documento delle Nazioni Unite
in vista del quinto congresso per la prevenzione del crimine e il
trattamento dei delinquenti faceva notare che si ritiene logico
e coerente un sistema che «in realtà non lavora come un sistema»
e che non può, data la sua struttura, offrire la coesione che gli
si attribuisce. Il cosiddetto «sistema di giustizia criminale» è
infatti composto da sottosistemi gerarchici appartenenti a corpi
differenti, variamente collegati al potere centrale, le cui regole
professionali, la deontologia, i criteri d’azione, gli orientamenti
ideologici si sviluppano nell’indipendenza reciproca. Difficilmente
si può chiedere a queste sotto-strutture di perseguire insieme,
nell’assenza di qualsiasi coordinamento concreto, i nobili obiettivi
che il discorso ufficiale assegna al sistema penale: lottare contro
la criminalità, fare giustizia, proteggere sia i diritti degli individui
che quelli della società e così via. Ricerche condotte a vari livelli
mostrano invece che la polizia, la magistratura, l’amministrazione
penitenziaria e le altre istituzioni che partecipano direttamente
o indirettamente alla giustizia repressiva, sono rivolte in modo
prioritario verso gli obiettivi interni che interessano il corpo
al quale appartengono: crescita di questo corpo, benessere dei suoi
membri, ricerca di un equilibrio nel compito da adempiere. D’altra
parte, l’estrema divisione del lavoro che si osserva nella successione
dei piccoli ruoli attribuiti a ciascuna parte in causa nel processo
penale mostra fino a che punto la compartimentalizzazione e la professionalizzazione
disumanizzano questo precesso, frappongono uno schermo tra l’interessato
e coloro che consentono il passaggio del caso da una fase all’altra.
E pur vero che questo è un tratto caratteristico delle grandi organizzazioni
burocratiche delle società industriali moderne. Ma è anche vero
che messo in pratica nell’ambito di un sistema il cui obiettivo
primario è d’infliggere punizioni, un tale funzionamento genera
delle conseguenze alle quali conviene fare particolare attenzione:
nessuno ha la padronanza né controlla questa macchina penale concepita
per produrre sofferenza, nessuno può sentirsi responsabile di questa
sofferenza né impedirle di prodursi a un ritmo che è il caso di
definire demenziale, poiché in Francia per esempio, il sistema penale
manda in prigione quasi centomila persone all’anno, cioè stigmatizza
all’anno, se si pensa alle famiglie coinvolte, circa mezzo milione
di persone. Il sistema penale opera attraverso dei meccanismi di
riduzione dei problemi umani. Il sistema penale trasforma gli eventi
vissuti in problemi-tipo astratti. Esso funziona a partire da filtri
interpretativi stereotipati che uniformano, riducono, deformano
la realtà.
L'astrazione dal contesto personale e sociale
Sotto la stessa etichetta sono perseguite azioni molto diverse:
un furto con scasso in una scuola vuota non è paragonabile a quello
che è commesso nell’appartamento di una persona anziana o sola.
Un comportamento aggressivo in seno alla famiglia non ha niente
a che vedere con un atto violento perpetrato nel contesto anonimo
di una strada. Poiché astrae l’atto che incrimina dal suo contesto
personale e sociale e lo priva del suo spessore esistenziale, il
sistema penale lavora in fin dei conti su due falsi problemi, chiuso
in un universo concettuale che non ha più niente a che vedere con
le realtà vissute. E poiché è sua vocazione designare dei colpevoli
per punirli, il sistema penale, dopo aver reinterpretato l’evento
che ha registrato sotto etichetta rigida, rende stereotipata anche
la risposta: la stigmatizzazione dell’autore scelto in vista del
castigo. Il sistema penale può solo punire, mentre ci sono tanti
altri modi possibili (e generalmente migliori) per reagire a un
evento spiacevole o doloroso. Consideriamo l’esempio della moglie
picchiata dal marito. La condanna di quest’ultimo, la sua eventuale
carcerazione sono forse le uniche risposte possibili? Le donne che
di fatto vivono questa esperienza, hanno trovato altre risposte:
consultare un centro d’accoglienza, incontrare altre donne con lo
stesso problema, imparare il karate, andare via da casa, ricorrere
a una terapia familiare insieme al marito e ai figli.
I cinque modelli di risposta
La teoria abolizionista ha identificato cinque modelli di risposta
a una situazione che l’interessato ritiene non poter sopportare
e che attribuisce a un autore responsabile: punitivo, compensativo,
terapeutico, conciliatorio ed educativo. Il sistema penale
in pratica conosce solo il modello punitivo. Infatti, qualsiasi
altra misura, diversa dalla pena organizzata all’interno del sistema
repressivo statalista che ha voluto essere educativa o terapeutica,
non ha mai perso in realtà il suo carattere afflittivo e infamante.
E questo sicuramente a causa dell’origine stessa del sistema penale,
concepito in un’epoca di transizione tra la società religiosa e
la società civile, e rimasto debitore del modello scolastico, a
sua volta ispirato dalla cosmologia medievale. Una verità definita
una volta per tutte e imposta dall’alto, dai giudici che si suppone
facciano una giustizia assoluta quanto serena, un fardello di sofferenze
inflitto in risposta a degli atti ritenuti cattivi e che devono
essere purificati, una filosofia manichea che divide gli uomini
in buoni e cattivi, innocenti e colpevoli, questa è ancora e sempre
la logica del sistema penale in vigore nella società di oggi. Una
logica da giudizio universale in cui il dio onnipotente, onnisciente
e vendicatore della scolastica è stato costituito dal codice penale
e dalla corte di cassazione. Alle due fondamentali accuse appena
mosse al sistema punitivo statale (nessuno ne ha la padronanza,
opera su dei problemi che esso stesso fabbrica) vengono ad aggiungersene
altri che finiscono per delegittimarlo.
Il sistema penale rafforza le diseguaglianze sociali
E' ormai chiaro che il sistema penale si applica quasi esclusivamente
alla fascia più povera o più vulnerabile della popolazione, mentre
uno dei motivi della sua instaurazione, alla fine del diciottesimo
secolo, è stata la volontà di mettere fine all’utilizzo arbitrario
e abusivo della forza dei potenti contro i deboli. Il sistema penale
opera infatti come strumento di emarginazione sociale degli elementi
in-desiderabili per le forze al potere, contrariamente all’affermazione
teorica secondo la quale la giustizia deve essere uguale per tutti.
Il sistema penale, tradendo la sua vocazione democratica, rafforza
le diseguaglianze sociali. Il sistema penale d’altra parte interviene
con violenza nella vita delle persone. La sofferenza inflitta a
coloro che il sistema condanna (una volta su quattro o una su cinque)
alla carcerazione, è generalmente minimizzata. Tanto più facilmente
tra l’altro quanto più essa riguarda una parte della popolazione
a cui coloro che fanno le leggi e coloro che le applicano non sono
psicologicamente vicini. Il carcerato viene privato di molto di
più della libertà. La preoccupazione per i «diritti dell’uomo» si
ferma generalmente alla porta della prigione. Dietro questa porta,
i condannati sono lasciati irrevocabilmente nelle mani di un amministrazione
onnipotente autorizzata ad agire nel segreto. Ora, questi beni e
questi diritti che gli vengono tolti contravvenendo alle carte più
solenni, sono proprio diventati i valori-chiave della civiltà occidentale:
diritto all’avanzamento personale, attraverso l’istruzione permanente
e il gioco dei contatti responsabili e stimolanti con gli altri,
diritto ad avere una famiglia e a prendersene carico, diritto alla
salute, diritto a una vita affettiva e sessuale, diritto a condizioni
di lavoro non umilianti, diritto a degli spazi d’intimità personale.
Un castigo anacronistico
Il criminologo norvegese Nils Christie sottolinea con particolare
enfasi, a ragione, questo aspetto spesso misconosciuto del problema:
nelle società occidentali, in cui il generale livello di vita materiale,
culturale e spirituale delle popolazioni tende a elevarsi, la reclusione
punitiva è diventata un castigo barbaro, esagerato, un fossato troppo
profondo scavato tra coloro che vi sono condannati e la condizione
ritenuta normale o auspicabile dal cittadino di un welfare state.
Un castigo anacronistico. La sofferenza dei carcerati è un male
assoluto, perché sterile. Ci sono delle sofferenze che fanno crescere,
che rendono migliori. Questa, e tutti gli osservatori oggi lo constatano,
non è mai creatrice: isolando dei gruppi di uomini per farli vegetare
insieme, artificialmente, in un mondo che rende infantili e aliena,
essa li disumanizza e de-socializza. Questa sofferenza è un non-senso.
Una società senza sistema penale esiste già
Così come è stato necessario vincere la forza di gravità per esplorare
il mondo esterno alla Terra, bisogna uscire dalla logica del sistema
penale per poter concepire una società nella quale sarà scomparso.
I concetti, il linguaggio del sistema penale ci trattengono nella
sua orbita e bisogna fare uno sforzo considerevole per poterne sfuggire.
Quando si parla di crimine o di reato, sorge immediatamente.un 'immagine,
che lo si voglia o no: quella di un attore colpevole. Se invece
si utilizza la parola evento, il termine situazione conflittuale,
o qualsiasi altro di carica neutra, si apre uno spazio nel quale
possono esistere delle interpretazioni diversificate. Se si sostituiscono
i vocaboli delinquente e vittima con l’espressione «persone coinvolte
in un problema» si evita di fissare mentalmente queste persone in
ruoli prefabbricati che limitano la loro libertà di coscienza e
le trasformano ipso facto in avversari. Si lascia aperto uno spazio
nel quale possono essere trovate risposte diverse da quelle del
modello punitivo. Solo quando si esce dal metalinguaggio penale
si sfugge al circolo vizioso delinquenza-carcere-recidiva-carcere
che nella logica penale si presenta come intellettuale. E solo allora
si smetterà di guardare le persone che cadono nelle maglie del sistema
come una categoria a parte, infraumana della società, si smetterà
di credere che non ci sono altre soluzioni che l’emarginazione e
si diventerà capaci, al di là della preoccupazione di prevenire
che si riferisce ancora alle definizioni del codice penale, d’immaginare
degli adeguamenti sociali che possano rendere meno frequenti o meno
pesanti alcuni problemi interpersonali indesiderabili.
Il sistema si occupa solo di una minima parte dei casi potenziali
Ma una sorpresa attende al varco l’osservatore che accetta di viaggiare
fuori dalla gravitazione del sistema penale: scopre infatti che
questo sistema, nonostante determini un male sociale aberrante,
si occupa solo di una piccolissima parte delle situazioni teoricamente
criminalizzabili. Di fronte al considerevole volume di problemi
interpersonali vissuti in ogni istante dalla popolazione di un dato
paese, pochissimi rientrano di fatto nella meccanica repressiva,
o perché ne rimangono al di fuori, nonostante siano situati nel
campo della sua competenza formale, o perché se ne fanno carico
altri meccanismi di risoluzione dei conflitti. Analizziamo questo
aspetto da più vicino. Alcuni problemi definiti di tipo penale non
entrano di fatto nel sistema repressivo. Le ricerche della sociologia
penale hanno messo in luce un fenomeno che nell’ottica penale viene
definito il «dato nero» (i casi che dovrebbero passare per il sistema
ma che in realtà gli sfuggono) e che nell’ottica abolizionista si
preferisce considerare come un sintomo del carattere in fin dei
conti irrisorio del sistema penale, un segno del fatto che questo
sistema non è del tutto indispensabile alla società, contrariamente
alle pretese del discorso ufficiale. Un certo numero di osservazioni
concordano su questo punto: le indagini condotte tra i soggetti
passivi degli atti criminali mostrano in particolare che un numero
molto elevato di atti teoricamente punibili non vengono nemmeno
segnalati alla polizia. D’altra parte, gli studi sui meccanismi
di alimentazione del sistema penale rivelano che la polizia in primo
luogo, poi il ministero della giustizia (nei sistemi continentali)
prendono in esame solo una proporzione limitata dei casi che vengono
segnalati loro, cosicché, l’analisi critica delle statistiche relative
alle condanne penali permette di scoprire che per dei fatti la cui
frequenza è sperimentalmente notoria, il totale delle condanne è
praticamente insignificante. Che ne è dei casi "smarriti"? Ci si
può chiedere che ne è dei problemi sui quali il sistema penale non
interviene pur essendo competente a farlo. E' innegabile che in
una certa percentuale di casi, le persone lese non sporgono denuncia
perché temono rappresaglie o perché sono convinte che la giustizia
sarà comunque impotente. E che altri, che invece segnalano il proprio
problema alla polizia, constatano con rammarico che il loro caso
ritenuto trascurabile dai responsabili dell’azione penale, non ha
seguito nel procedimento penale. Ma un’ analisi meno superficiale
delle situazioni nelle quali si trovano coloro che non ricorrono
alle vie legali, mostra che i problemi definiti di tipo penale che
tuttavia non entrano nel sistema, ne restano normalmente al di fuori
per esplicita volontà delle persone direttamente coinvolte. Molto
spesso, il soggetto passivo di un reato non ne chiede conto a nessuno
perché non attribuisce l’evento a un autore colpevole o responsabile.
Alcuni esempi molto semplici permettono di cogliere la diversità
delle reazioni di chi subisce un reato. Quando qualcuno muore durante
un’operazione, si sente dire spesso: è stato un incidente, oppure
dio l’ha chiamato a lui, mentre altri chiamano in causa la responsabilità
professionale. Se qualcuno muore per aver ingerito troppe medicine,
stesso concerto di interpretazioni divergenti: alcuni accettano
quella che definiscono fatalità. Altri deplorano che il malato abbia
ingoiato per errore, pensano, la dose fatale. Altri ancora sospettano
che la vittima si sia data volontariamente la morte, approvando
o condannando un tale gesto. E se alcuni credono di intuire che
un parente abbia aiutato il malato a togliersi la vita, ci sarà
chi accuserà questo terzo di essersi reso complice di un suicidio
oppure di non aver assistito una persona in pericolo, mentre altri
valorizzano il gesto coraggioso, il servizio supremo reso in nome
dell’amicizia.
I quadri di riferimento della teoria abolizionista
La teoria abolizionista ha così messo in luce una specie di tipologia
dei quadri di riferimento nei quali classificare le interpretazioni
che le persone danno di un fatto vissuto. Un prima classificazione
separa i quadri soprannaturali e naturali da quelli sociali d’interpretazione.
In un quadro naturale d’interpretazione, l’evento è visto come un
incidente. Nell’ambito dei quadri sociali d’interpretazione, possiamo
distinguere una griglia sociale strutturale e una griglia sociale
personale. Nella griglia strutturale, l'evento è attribuito a una
struttura sociale (e la risposta a un tale evento è quindi individuata
nella riorganizzazione sociale). Nella griglia personale l'evento
è attribuito a una persona o a un gruppo personalizzato. Nell'ambito
di quest'ultima griglia si distinguono dei tipi d'interpretazioni
che si concretizzano in cinque modelli di risposta: punitivo, compensativo,
educativo e conciliatorio. In questa linea d'interpretazione dei
fatti lasciata all'iniziativa degli interessati, si può affermare
che in un numero di casi certamente molto elevato, le persone coinvolte
in fatti che la legge penale definisce punibili non vi ravvisano
personalmente nessun problema, o comunque nessun problema che possa
essere risolto con un intervento criminalizzante. Tutti d'altra
parte ne fanno esperienza: quante volte l'insulto, la calunnia,
la violenza nelle parole o nei gesti, alcuni comportamenti sessuali,
l'abuso di potere o d'autorità, fatti vissuti abitualmente di cui
si è stati vittime o attori, avrebbero potuto motivare un'azione
penale in virtù delle regole formali del sistema e invece non si
è fatto ricorso? Se la maggior parte dei problemi non si risolvesse
per vie naturali, la vita sociale sarebbe praticamente impossibile.
Senza negare l'esistenza, comprensibile, dei casi in cui è esplicitamente
, e talvolta violentemente, espresso un interesse personale, alcune
ricerche concordanti condotte in diversi paesi nell'ottica del soggetto
passivo del reato, mostrano che le persone che si ritengono vittime
di un fatto spiacevole attribuibile secondo loro a un soggetto determinato,
non cercano normalmente la via penale: sperano in generale non di
veder punito l'autore, ma di ottenere il risarcimento o di ricorrere
a un processo di conciliazione. In questo modo si rifanno, senza
saperlo, a una tradizione antichissima: la distinzione tra caso
civile e caso penale non esiste nelle società naturali , ed è comparsa
in occidente solo molto tardi. Si tratta di una distinzione giuridico-politica
che non si fonda su alcuna natura particolare dei problemi in questione
e che le persone lese ignorano.
I problemi definiti civili o considerati tali nella pratica
L'analisi fin qui svolta ha messo in luce che solo una minima proporzione
dei fatti definiti della legge penale come crimini o reati sono
realmente perseguiti e condannati. Questo dovrebbe indurci a porre
una prima domanda (inquietante): perché proprio quei fatti? Ma un'altra
domanda consolida la perplessità dell'osservatore attento: perchè
il legislatore e la giurisprudenza sottopongono alla legge penale
alcuni atti o comportamenti piuttosto che altri? Con un'analisi
più approfondita, un numero considerevole di fatti che potrebbero
essere di competenza della legge penale (in virtù degli orientamenti
che sembrano guidare l'attività criminalizzante del potere) in realtà
non lo sono. Il campo civile interessa livelli e zone estremamente
importanti e differenziate dell'attività e delle relazioni in terpersonali,
nell'ambito dei quali importanti eventi vittimizzanti sono considerati
in un approccio non stigmatizzante per le persone che hanno portato
pregiudizio agli altri, grazie al principio della responsabilità
cosiddetta civile e della nozione di rischio. E’ estremamente raro
che si ricorra alla via giudiziaria e ancora più raro è che il sistema
penale entri in azione nei settori che hanno una grande rilevanza
economica per la vita di una nazione. Gli importanti problemi doganali,
finanziari, fiscali, ecologici che sorgono nel mondo degli affari
si risolvono normalmente attraverso negoziati, transazioni o arbitrati,
con l'assenso e talvolta su proposta delle amministrazioni pubbliche
interessate. Gli infortuni sul lavoro sono classificati in linea
teorica come problemi civili che vengono regolati dalla previdenza
sociale. I problemi relativi ai contratti e alle condizioni di lavoro
sono anch'essi problemi di natura civile.
Fra penale e civile
In che cosa i problemi affrontati dal diritto civile si distinguono
da quelli affrontati dal diritto penale? Lo spirito giuridico s'ingegna
a giustificare le classificazioni del diritto positivo. Ma nessun
criterio resiste all'osservazione dei fatti. Gli infortuni sul lavoro,
che in Francia producono circa tremila decessi e più di trecentomila
invalidità permanenti all'anno, costituiscono un fatto di estrema
gravità per le numerose famiglie coinvolte. Le pratiche conciliatorie
evocate a proposito del mondo degli affari riguardano attività anche
molto lesive o pregiudizievoli per dei gruppi importanti della popolazione,
talvolta per l'intera collettività nazionale. Il fatto che i problemi
di questo tipo possano cadere sotto la giurisdizione del diritto
civile, dimostra che l'importanza del danno causato non permette
di collocare a priori un evento nel campo penale. Altrettanto può
dirsi del preteso “valore essenziale” secondo il quale bisognerebbe
proteggere dall'alto tutti gli altri valori. In Francia, i tre quarti
delle persone attualmente detenute lo sono (o lo saranno perché
il 53 per cento sono imputati) perché‚ si sono impossessati di un
certo tipo di beni appartenenti ad altri. Possiamo veramente dire
di aver fissato in questo caso un valore superiore a tutti gli altri?
E’ sicuramente sgradevole essere privati di un proprio bene. Ma
non siamo forse più profondamente colpiti da altri fatti che non
entrano nel circuito penale: per esempio i problemi riguardanti
la condizione di lavoratori stipendiati o quelli che sorgono nella
coppia o nella famiglia? L'assenza di una nozione ontologica di
crimine o di reato, cioè il fatto che non si possa attribuire ai
comportamenti attualmente definiti come punibili alcuna natura intrinseca
particolare, viene messa in particolare evidenza quando il potere
si propone di ribaltare un intero settore da un campo giuridico
all'altro, secondo gli interessi sociopolitici in gioco. Essa dimostra
che tutto potrebbe essere civilizzato se esistesse una volontà politica
in tal senso. E questa è proprio la rivendicazione avanzata dagli
abolizionisti del sistema penale.
Le implicazioni della teoria abolizionista
Quando si considera il sistema penale un male sociale e quando
si vedono già vivere in controluce delle aree sociali in cui si
è imparato a fare a meno di questo sistema, può non volersi la sua
totale soppressione? Sforziamoci di non utilizzare un certo vocabolario
asettico che tende a occultare la realtà. Come fa notare Nils Christie,
quando si parla di “pena privativa della libertà”, di “responsabili
dell'affidamento” o di “interni”, si finisce per dimenticare di
cosa si tratta. Chiamiamo quindi le pene, l'amministrazione penitenziaria
e i carcerati con il loro nome e cerchiamo di uscire dal discorso
puramente ideologico per porci le vere domande, quelle che si pone
da alcuni anni la sociologia penale e alle quali risponde con una
precisione sufficiente a colpire nel segno. Per esempio: chi è in
carcere? Per quali motivi? In seguito a quali meccanismi di discriminazione?
Che cosa significa la carcerazione per gli uomini e le donne chiusi
nelle carceri così come si presentano oggi? Perché le persone imprigionate
sono escluse dai diritti dell'uomo? Come spiegare la strana impotenza
dei poteri pubblici di fronte all'inflazione dei testi punitivi
e all'aumento costante delle condanne alla pena privative della
libertà, mentre questi stessi poteri pubblici affermano di voler
fare della carcerazione la misura eccezionale di un sistema penale
che sarebbe esso stesso ultima ratio delle giustizie ufficiali?
Umanizzare il carcere è sforzo vano La storia insegna che è inutile
cercare di rendere più umana la prigione e che modificando gli scopi
della pena, o la sua durata, o i suoi fondamenti teorici o le sue
modalità non si può cambiare nulla del sistema. Così com'è, con
le sue strutture burocratiche, i suoi meccanismi stereotipati che
sprezzano i protagonisti reali, e la sua finalità remunerativa,
il sistema penale può solo e sempre essere una macchina per produrre
sofferenze vane. Se si vuole uscirne, se si vuole veramente che
questo sistema cessi di creare il male che molti, onestamente, deplorano,
bisogna immaginare altre soluzioni. E' quello che cercano di fare
i sostenitori dell'abolizione, che pensano nel medio o nel lungo
periodo di farlo sparire e nel breve di disinnescarlo. Lavorando
nell'ambito di un nuovo quadro concettuale che si cercherà di precisare,
con i suoi effetti positivi prevedibili sulla dinamica sociale.
Il nuovo quadro concettuale
Per l'abolizionista del sistema penale, non si tratta in primo
luogo di riformare dei testi legali, ma di instaurare altre pratiche
che conducono a un'altra visione della società e dei conflitti interpersonali
che attualmente si compongono e scompongono al suo interno. Certo,
è importante cercare di ritoccare i testi legali nel senso più ampiamente
decriminalizzante, poiché strategicamente è impossibile prospettare
nel breve periodo la loro completa sparizione. Ma bisogna anche
lavorare in un'ottica di lungo periodo. Tener conto dell'esperienza
delle persone coinvolte E in questa prospettiva, che cosa propongono
gli abolizionisti? Il quadro concettuale dominante, che scaturisce
dalla politica criminale, dalle legittimazioni del sistema penale
e dalla stessa criminologia, presuppone una nozione ontologica di
crimine, e la criminalizzazione primaria cerca di definire quali
sono i comportamenti che risponderebbero a questa realtà, mentre
la criminalizzazione secondaria cerca di reprimerli. La teoria abolizionista
invece negando l'esistenza di una nozione ontologica di crimine,
cerca di trarre le conseguenze da questa negazione. Si intende comunque
scartare qualsiasi schema concettuale che escluda l'esperienza vissuta
dalle persone direttamente coinvolte in una situazione che le vede
soggetti passivi di un reato. Queste osservazioni essenziali permettono
di fissare alcuni punti chiave nella ricerca del discorso alternativo
che si tenterà di elaborare.
L'abolizionismo in pratica
I primi articoli della logica qui proposta potrebbero essere i
seguenti:
- Nessun evento vittimizzante è aprioristicamente attribuito a
un attore colpevole.
- Solo le situazioni che determinano problemi per qualcuno (persone
singole o collettività) possono essere occasione di un intervento
esterno alle persone coinvolte nella situazione, su domanda di
queste.
- Le soluzioni atte a risolvere o a far evolvere le situazioni-problema,
non sono determinate a priori: la scelta del modello di risposta
da prospettare spetta agli interessati.
- I conflitti che si producono all'interno di un gruppo vengono
risolti preferibilmente in seno al gruppo. Tuttavia, quando una
persona coinvolta in una situazione-problema spera porvi rimedio
con l'aiuto di un intervento esterno, può ricorrere sia
a una mediazione psicologicamente prossima, sia a una giustizia
ufficiale che lavori sul modello civile di regolamento dei conflitti.
- Quando in una situazione-problema non è prospettabile nessun
ricorso concreto, deve esistere un processo di sostegno e conforto
che aiuti la vittima ad affrontare la situazione.
Una nozione flessibile di crimine
L'abbandono della logica penale, chiaramente espresso in quest'abbozzo
di “carta”, si basa su un approccio di cui conviene sottolineare
l'originalità. L'abolizionista intende problematizzare la nozione
di crimine (o di reato), fulcro del sistema penale, e far leva su
una nozione flessibile che potrebbe essere applicata a qualsiasi
conflitto interpersonale che richiede una soluzione: quella di situazione
problema. L'abolizionista non vuole agire come fa la maggior parte
dei riformatori sulla fase finale del sistema, nel momento in cui,
dopo averne attraversato tutte le sequenze, l'accusato diventerà
irrimediabilmente un escluso. L'abolizionista, convinto che le persone
afferrate dal sistemane escano sempre in qualche modo degradate
(anche se se la cavano senza condanna), non lavora a valle, quando
i giochi sono ormai fatti, bensì a monte: cerca con ogni mezzo di
evitare che le persone entrino nel sistema. Ciò è consentito dall'uso
prevalente della nozione di situazione-problema, che implica il
rifiuto del concetto lega le di crimine o di reato e che è peculiare
dell'approccio abolizionista. Da notare che la nozione di situazione-problema
non è proposta in sostituzione del concetto di crimine, come
se si trattasse di trovare una chiave migliore per aprire la stessa
serratura. Contrariamente al concetto di crimine così com'è presentato
e applicato nel sistema penale, quella di situazione-problema è
una nozione aperta, che consente agli interessati la scelta del
quadro interpretativo dell'evento e dell'orientamento da dare all'eventuale
risposta. Bisogna cercare anche di evitare che sotto un nome diverso
(ad esempio con il pretesto della terapia o dell'educazione) siano
introdotte nuove strutture che si rivelano alla fine simili al sistema
penale.
Una teoria frutto di un'analisi libera del presente e del passato
L'abolizionismo si basa sulle osservazioni precedentemente sviluppate,
secondo le quali un gran numero di situazioni che attualmente rientrano
nel campo d'azione del sistema penale non verrebbero più considerate
come necessitanti un qualunque intervento esterno. Nella società
senza sistema penale, non solo nessun fatto, nessun comportamento
sarebbe più definito ed etichettato a priori come fatto punibile
(crimine o reato), ma inoltre nessuna situazione sarebbe oggettivamente
predeterminata come un problema da risolvere. Quindi, concepire
una società senza sistema penale non implica assolutamente che si
forgi un sistema di sostituzione con lo stesso stampo di quello
del sistema abolito. Al contrario, la società senza sistema penale
non presuppone nessun intervento esterno se non su espressa domanda
delle persone interessate, che vedono da sè e per sè questa situazione
come un problema che cercano di risolvere.
Verso una nuova dinamica della vita sociale
I vantaggi della logica abolizionista sembrano evidenti: innanzitutto,
sopprime ipso facto il male sociale che il sistema penale rappresenta.
Ma altre conseguenze positive deriverebbero dalla sua realizzazione.
Considerare non più solamente un atto e il suo attore immediato,
ma una situazione complessa significa precludersi di pensare che
l'unica soluzione possibile consista inun intervento diretto nella
vita di quest'attore. Si può cercare di influire su altri fattori
che hanno potuto contribuire a creare questa situazione. Per esempio:
punire i conducenti può non essere l'unico modo per evitare gli
incidenti stradali. Comincia invece a essere messa in pratica in
alcuni paesi una politica di prevenzione nel senso neutro del termine
(senza riferimento al campo penale): modificando i circuiti stradali,
impedendo la commercializzazione di alcuni tipi di veicoli o regolamentando
altrimenti la circolazione o la patente di guida, si spera di abbassare
la curva dei sinistri. Ancora, ma su un altro fronte, una politica
di sdrammatizzazione di alcuni fatti che i mass media tendono a
far credere molto frequenti e a esagerare, potrebbe far rientrare
il senso d'insicurezza e creare un contesto sociale più sano, in
cui potrebbero essere valutati i rischi reali, allontanata la paura
fantomatica e affrontati i veri problemi. Non si sostiene che qualsiasi
evento decriminalizzato cesserebbe di costituire un problema. Ma
non classificare un fatto come punibile per principio significa
in numerosi casi permettergli di venire alla luce: nei paesi in
cui non sono più perseguibili, le donne che abortiscono possono
provare disturbi psicosomatici e i drogati un fenomeno di dipendenza
che può frenare lo svolgimento delle loro attività e il loro sviluppo
personale. La decriminalizzazione dà in questi casi all'interessato
la possibilità di parlare del suo problema, di consultare le persone
che possono dare utili consigli. La soppressione della minaccia
penale ha creato una situazione positiva di apertura al dialogo
e alla solidarietà.
Il ruolo dei mediatori
Nel caso in cui si presentasse una situazione conflittuale in queste
condizioni di liberalizzazione, i gruppi ai quali appartengono gli
interessati svolgerebbero un ruolo privilegiato come già attualmente
fanno per i problemi che non rientrano nelle competenze del sistema
penale. Ma la società senza sistema penale richiederebbe certamente
la moltiplicazione delle piccole istanze flessibili specializzate
nella mediazione che le società naturali ben conoscono e che con
successo vengono di nuovo sperimentate in alcune regioni del mondo.
Diverso dal conciliatore perché non è un arbitro che impone una
soluzione, bensì una persona solidale che cerca di aiutare gli interessati
a capire meglio la loro situazione e a trovarvi da soli il rimedio,
il mediatore è un personaggio da promuovere nelle società dal tessuto
teso. Una società in cui si diffondesse la mediazione, in cui le
persone cercassero di prendersi carico solidarmente dei problemi,
presenterebbe dei tratti più pacati e più confortanti che non quella
che conosciamo, in cui la monopolizzazione della giustizia da parte
degli apparati ufficiali spinge i cittadini a scaricare su questi
problemi che in realtà sono i soli a poter risolvere in modo soddisfacente
(ammesso che esista una soluzione). Alcuni problemi sono infatti
senza soluzione, notiamolo ancora una volta, e l'eccessivo peso
dato dalla società ai sistemi ufficiali di giustizia contribuisce
certamente a far credere che questi ultimi possano dispensare dei
rimedi miracolosi. In una società in cui sia dato uno spazio importante
alle mediazioni naturali, le persone vittime di un reato sarebbero
meno tentate di credere a questi rimedi-miracolo e, aiutate da questa
atmosfera di contorno, comincerebbero subito a fare su se stesse
l'indispensabile lavoro di maturazione che permette di affrontare
i duri colpi. Quali speranze ha l'abolizionismo? La nuova logica
qui proposta ha qualche possibilità di essere favorevolmente accolta
dagli specialisti e dall'opinione pubblica? Potrebbe sembrare imprudente
sperarlo viste la forza d'inerzia e le resistenze psicologiche che
fanno in modo che si esprima ancora la necessità di un sistema penale,
eventualmente ridotto a un'espressione minima. Ma queste reazioni
si basano su un falso consenso e alcuni segni precursori di disaffezione
mostrano come sia importante elaborare una teoria dell'abolizione
da mettere in pratica nel momento in cui forze importanti e convergenti
della società si accorgeranno che si tratta di un obiettivo futuribile.
Nella sua posizione teorica, il sostenitore dell'abolizione del
sistema penale spicca certo tra tutti i revisionisti e tutti i riformisti.
Ma non è innanzi tutto un ideologo. Giunto a questa posizione attraverso
il realismo dell'osservazione empirica e scientifica, resta un uomo
concreto, solidale nei confronti di tutti coloro che vengono schiacciati
dal sistema penale e desideroso di lavorare con tutti i ricercatori,
gli operatori, i penalisti e le persone di buona volontà che di
fatto sconfessano questo sistema. Numerosi gruppi di ricercatori
hanno, già da molti anni, orientato i loro lavori in un senso che
permette ad alcuni di affermare oggi “la non evidenza del penale”
e di programmare una nuova serie di ricerche tendente a fondare
questa diagnosi in modo inequivoco. Altre indagini, realizzate a
partire da eventi lesivi, contribuiscono a mostrare la possibilità
di sviluppo di una società senza sistema penale, che già esiste.
Si pongono quindi le basi per il momento in cui una reinterpretazione
globale del settore abitualmente designato come quello proprio della
politica criminale sarà diventato agli occhi di tutti indispensabile.
Una politica più coraggiosa
Per quanto riguarda l'opinione pubblica molti colgono gli aspetti
nefasti e le controindicazioni, se non la totale assurdità, del
sistema penale. Vengono redatti rapporti, denunciati scandali, manifestazioni
(sporadiche o organizzate) mostrano una preoccupazione popolare
certa, di volta in volta nei confronti dei carcerati e delle vittime,
i sindacati dei magistrati, degli avvocati, degli specialisti che
lavorano nel parapenale e nel parapenitenziario, anche i sindacati
del personale penitenziario mettono in evidenza nelle loro pubblicazioni
specialistiche, la crisi di coscienza che lentamente contagia tutti
coloro che azionano il sistema. Resta il fatto che i dubbi e le
aspirazioni testimoniate da questi diversi movimenti non riescono
a coniugarsi per porre le basi di quello che è il vero e proprio
dibattito. E’ necessario quindi che una volontà politica osi rimettere
in discussione gli antichi condizionamenti sui quali poggia un sistema
desueto ed escogiti delle soluzioni sociali adatte alla mentalità
e alle esigenze della nostra epoca. Contributire a un tale risveglio
costituisce forse attualmente la principale sfida della teoria dell'abolizione
del sistema penale. (Traduzione di Francesca Arra)