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L’apolidato nel diritto costituzionale italiano

I singoli elementi costitutivi dello Stato sono:

·         il territorio
·         il popolo
·         la sovranità
Ai fini della nostra ricerca è opportuno soffermarsi sul secondo degli elementi costitutivi sopra elencati.
Con il nomen iuris popolo, si indica la comunità di tutti coloro ai quali l’ordinamento giuridico statale assegna il lo status di cittadino. Da detto status derivano una serie di situazioni giuridiche attive e passive che valgono a porre, in maniera esclusiva, i cittadini in relazione con l’apparato autoritario; laddove, invece, i non cittadini (stranieri, apolidi) sono di regola esclusi dal godimento di alcuni diritti (aventi solitamente natura politica) e non sono sottoposti all’osservanza di alcuni doveri (aventi anch’essi natura latamente politica). Quanto esposto pone il problema dell’appartenenza allo Stato. La maggior parte degli ordinamenti stabiliscono una regola che contiene una presunzione basata sul vincolo di sangue (ius snguinis). Si presume cioè che che la discendenza naturale valga a trasmettere, di generazione in generazione, il carattere intrinseco che fa di un uomo un cittadino (“E’ cittadino italiano il figlio, anche adottivo, di padre cittadino o di madre cittadina” ex Art.5 Legge 21 Aprile 1983, n.123).
Altri  modi di acquisto della cittadinanza rispondono, invece, a criteri diversi:
·         ius soli: nascita nel territorio dello Stato (acquista la cittadinanza chi è nato nella Repubblica se entrambi i genitori sono ignoti o non hanno la cittadinanza italiana né quella di altro Stato, ovvero il figlio che non segua la cittadinanza dei genitori stranieri secondo la legge dello Stato al quale essi appartengono)
·         decreto del Presidente della Repubblica: acquista la cittadinanza (conferita con decreto) il coniuge, straniero o apolide, di cittadino italiano, quando risiede da almeno sei mesi nel territorio della Repubblica ovvero dopo tre anni dalla data del matrimonio

Premesso che, a norma dell’art. 22 della Costituzione, nessuno può essere privato, per motivi politici oltre che della capacità giuridica e del nome, anche della cittadinanza, la legge italiana sulla cittadinanza del 13 Giugno 1912, n. 555, dispone che può rinunciare alla cittadinanza il cittadino nato e residente in uno Stato estero, dal quale sia ritenuto proprio cittadino per nascita, una volta divenuto maggiorenne o emancipato. Perde invece la cittadinanza:
·         chi, spontaneamente acquista una cittadinanza straniera e stabilisca o ha stabilito all’estero la propria residenza
·         chi, avendo acquistato senza concorso di volontà propria una cittadinanza straniera, dichiari di rinunciare alla cittadinanza italiana e stabilisca o abbia stabilito all’estero la propria residenza
·         chi, avendo accettato impiego da un governo estero o essendo entrato nel servizio militare di potenza estera, vi persista nonostante l’intimazione del Governi italiano di abbandonare entro un termine fissato dall’espletamento dell’impiego o servizio.
 

L’apolidato nel diritto internazionale

La questione dell’apolidato viene prese in considerazione dalle norme di Diritto Internazionale Privato per soddisfare l’esigenza di “individuare il diritto applicabile” al caso concreto.
In particolare, ai fini sia della delimitazione della giurisdizione che della individuazione del diritto applicabile, vengono assunti come rilevanti, dal legislatore nazionale ovvero dagli autori di convenzioni di diritto internazionale privato, alcuni aspetti della fattispecie idonei a dimostrare l’esistenza di una connessione significativa tra la fattispecie in questione e l’ordinamento del foro oppure un altro ordinamento (a riguardo, si parla di titoli di giurisdizione e criteri di collegamento).
Per esempio, le norme sulla competenza giurisdizionale della Convenzione di Bruxelles del 1968 si applicano alle persone domiciliate nel territorio di uno degli Stati contraenti (assumono quindi il domicilio come titolo principale di giurisdizione ex art.2 e 3) ma il domicilio è altresì assunto come titolo generale di giurisdizione dalla legge italiana che lo impiega come criterio di collegamento sussidiario rispetto alla cittadinanza in relazione agli apolidi e ai rifugiati.
Si ricorda che le connessioni principalmente usate sono tre: il domicilio, la cittadinanza e la volontà delle parti.
Per lungo tempo uno di temi cruciali del diritto internazionale ha riguardato la preferenza da accordare alla cittadinanza o al domicilio, soprattutto come criterio di collegamento in vista della disciplina dello statuto personale degli individui. Il criterio della cittadinanza riflette l’appartenenza dell’individuo a uno Stato e si ricava da intensi significati politici ed ideologici, tanto in relazione al modo in cui gli Stati europei regolavano nel secolo scorso l’attribuzione della propria cittadinanza, quanto in relazione al fatto che solo ai cittadini era (ed è) concessa piena partecipazione alla vita socio – politica della comunità statale.
Il criterio del domicilio e della residenza riflettono invece un legame meno politico ed ideologico con una data comunità sociale e dipendono dalla localizzazione del centro degli interessi di una persona e dalla sua permanenza fisica in un dato luogo (cfr. art.43 Cod. Civ.). E’ da notare che gli interessi che vengono in rilievo sono sia quelli economici e professionali, sia – e soprattutto – quelli rappresentati dai legami familiari. La preferenza per il criterio della cittadinanza è accolta nelle Disposizioni Preliminari del Codice Civile del 1942.
La ragione di tale scelta sembrava generalmente rispondere a indirizzi di politica legislativa che vedevano schierati sul fronte del criterio della cittadinanza gli Stati a forte emigrazione (interessati a tenere vivo il legame coi propri cittadini all’estero e a permettere ai propri giudici di esercitare la giurisdizione nei loro confronti e di applicare la loro legge nazionale). Sul fronte dei criteri del domicilio e della residenza si schieravano invece gli Stati verso i quali si dirigevano importanti correnti di immigrazione, interessati alla integrazione degli immigrati anche attraverso la possibilità di applicare la loro legislazione locale. Si tratta tuttavia di una schematizzazione esplicativa valida più che altro per il passato che per il presente: non pochi legislatori, infatti, pur in presenza di leggi che regolano l’attribuzione della cittadinanza in maniera assai diversa rispetto al passato – in modo da favorire, tra l’altro, il sorgere di situazioni di doppia o plurima cittadinanza che le precedenti leggi miravano, al contrario, ad evitare – hanno mostrato la tendenza a confermare la scelta tradizionale.
La volontà delle parti è sia criterio di collegamento titolo di giurisdizione. Il principio della volontà trova espressione sul piano processuale nelle norme che riconoscono alle parti il potere di prorogare ma anche di derogare la giurisdizione (l’accordo non può produrre effetti se non nei casi previsti dalla legge!).
Fatte queste considerazioni preliminari, una difficoltà emerge qualora si considera che la legge sulla cittadinanza (L.5 Febbraio 1992, n. 91 Nuove norme sulla cittadinanza) permette soltanto di stabilire se una persona possiede o no la cittadinanza italiana ma non può funzionare verso altri Stati: non è possibile, sulla base della legislazione italiana, stabilire di quale Stato, diverso dal nostro, un individuo sia cittadino. In altre parole, - poiché gli Stati, possono soltanto conferire o negare la propria cittadinanza – questo criterio di collegamento non è suscettibile di essere qualificato come lex fori (legge applicabile).
A riguardo è esplicita la previsione dell’art.22 della legge svizzera del 1978: “La cittadinanza di una persona rispetto ad uno Stato è determinata secondo il diritto del medesimo. Ne consegue che il giudice italiano può trovarsi di fronte individui che nessuno Stato considera propri cittadini – gli apolidi – come pure individui che possiedono più di una cittadinanza.